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Cannes 2018. Recensione: LE LIVRE D’IMAGE di Jean-Luc Godard. Dispaccio dal Grande Vecchio del Lago

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Le livre d’image, un film di Jean-Luc Godard. Compétition.
Torna in absentia il guru del cinema della modernità. Che a 87 anni spedisce in concorso il suo nuovo film. Un perfetto esempio di montaggio e cut-up godardiani, folgorante ma meno audace del precedente Adieu au langage. A stupirci davvero è solo la citazione da parte del rivoluzionario JLC di un testo di Joseph de Maistre, maestro del pensiero reazionario. Voto: non si danno voti a Godard.
Il vegliardo della Nouvelle Vague, il genio antipatico del cinema della modernità, l’intrattabile, forse bisbetico Vecchio del Lago (vedi il finale di Visages Villages dove, blindato nella sua casa sul lago di Ginevra, non apre la porta nemmeno all’amica di sempre Agnès Varda), ha mandato questo suo nuovo film a Cannes come si manda un messaggio in bottiglia. Un dispaccio dall’esilio. Un testo oracolare dall’eremo. Le livre d’image è stato, ovviamente, proiettato in absentia, come per Leto di Serebrennikov e 3 Faces di Panahi, ma per tutt’altri motivi. È che Godard da tempo non si mostra, si sottrae, si è autorecluso, alimentando il proprio mito attraverso la disparition, il non esserci, trasmutandosi in presenza fantasmatica ma ben impiantata nella testa di tutti i cinefili. E non si sa come decifrare la sua performance post-screening (LesInrocks l’ha definita dadaista), quando ha intrattenuto i giornalisti accorsi alla conf. stampa con un istrionico intervento via Facetime con tanto di sigaro alle labbra. Ovvero: palesarsi virtualmente, smentendo e insieme confermando clamorosamente la propria inaccessibilità, la propria distanza dai comuni mortali, il proprio nascondimento. Che è come Mina (e decidete voi per chi il paragone sia irriverente, se per l’uno o per l’altra) quando appare a Sanremo in forma di androide, ecco. Godard è Godard è Godard. Più che mai. La magnifica ossessione di ogni festivalier, di ogni fanativo del cinema come arte, come autorialità, come visione peculiare e personale fino all’idiosincrasia. L’uomo che negli anni Sessanta cambiò davvero il cinema ma il nostro stesso modo di guardare i film e anche di guardarci intorno, è tornato di nuovo a Cannes non essendoci. Come era venuto a Cannes senza venirci tre anni fa con Adieu au langage, in un 3D sgangherato e folle che ammaliò con la sua imperfezione, inventando attraverso quella tecnologia goffamente manipolata ancora e ancora un cinema altro. Non è il caso di questo Le livre d’image, meno audace benché assolutamente godardiano, un film di montaggio puro di materiali visivi attinti da bacini diversi, soprattutto dal cinema, usato come immenso archivio e deposito di storie, sogni e incubi. Per raccontarci cosa? Non lo so, non ho capito e neanche voglio capire. Solita (è almeno dai tempi della Chinoise che JLC lo fa) organizzazione per capitoli dotati di titoli fulminanti benché talvolta gratuiti o infedeli rispetto a quanto verrà mostrato. E le sue adorate scritte di derivazione vetero-brechtiana, come pedagogici slogan maoisti ossessivamente riproposti, prese a prestito da autori illustri o inventate ex novo: metodo usato da JLC in infiniti film precedenti. Ma Le livre d’image vale non tanto per quanto dice ma per come lo fa, e come immagini-flusso cui lasciarsi andare come sotto ipnosi, o sotto l’effetto di qualche sostanza psicotropa. Visione e allucinazione. Anche una sfida a chi ha visto molti film a riconoscere dai frame decontestualizzati, autonomizzati, detournati, sconvolti, l’opera d’origine, la fonte. Con voice over (di chi? dello stesso Godard?) a leggere brani letterari o testi oscuramente sapienziali, come venuti da un qualche altrove. Facile dire che non è un film ma un’installazione da biennale, che ormai il cut-up, il montaggio blobbistico, è pratica di massa, inflazionato, di cui su youtube si possono trovare milioni di esempi. Ma lui resta Godard, e il suo sguardo è unico per la capacità di illuminare e rivelare. Che libere e folgoranti associazioni, e come l’immagine più vista e più sdata da lui incastonata tra altre e congelata nell’immobilità oppure rielaborato in digitale acquista senso e sensi che non ti potevi nemmeno pensare. Solo che il gioco resta spesso celibe, non producendo altro che se stesso. Anche quando JLG si aggancia a un’apparenza di attualità e contemporaneità (come nell’ultima lunga parte sul mondo arabo, la cultura islamica, gli sconvolgimenti mediorientali), si resta ammirati dai virtuosismi formali, senza che la nostra conoscenza del mondo e della realtà faccia il minimo passo in avanti. A stupire davvero sono le ampie citazioni in voice over di Le serate di San Pietroburgo di Joseph de Maistre, libro capitale per ogni cultore del pensiero reazionario, di ogni nostagico dell’ancien régime. De Maistre, convinto che la degenerazione dell’Europa fosse cominciata con la riforma protestante, finisce in un film del calvinista ginevrino Godard, dell’iper ivoluzionario Godard. Che ancora una volta si beffa di noi e ci spiazza e spiazza gli stessi fanatici godardiani. Che gran momento di cinema è il racconto di de Maistre da San Pietroburgo dell’imminente decisiva battaglia contro Napoleone illustrato con sequenze da Guerra e pace, non saprei dire se quello di Sergej Bondarciuk (capolavorissimo proiettato qualche sera fa qui a Cannes Classique in versione restaurata) o quello di King Vidor. E grazie a Bogdan Kara che mi ha instillato il dubbio: io ero convinto che fosse la produzione russo-sovietica del 1967.


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